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Decolonizzare l’immaginario

Questa settimana saremo chiamati a fare un piccolo intervento divulgativo in un contesto imprenditoriale insieme a un panel di relatori che, da diversi punti di vista, ragioneranno su “Aver cura della sicurezza”. Noi, che siamo un’impresa sociale e ci occupiamo di cohousing e delle diverse forme di abitare collaborativo, più che di sicurezza preferiamo partire […]

Questa settimana saremo chiamati a fare un piccolo intervento divulgativo in un contesto imprenditoriale insieme a un panel di relatori che, da diversi punti di vista, ragioneranno su “Aver cura della sicurezza”.

Noi, che siamo un’impresa sociale e ci occupiamo di cohousing e delle diverse forme di abitare collaborativo, più che di sicurezza preferiamo partire dalle insicurezze.

Quelle insicurezze che attraversano la società italiana e la portano a consumare 36,5 milioni di confezioni di antidepressivi l’anno o a dire che per il 48% degli italiani la sensazione di vulnerabilità è in aumento. Oppure a rilevare che l’emozione più diffusa è la paura e a mettere in atto strategie di difesa contro l’insicurezza verso il futuro come il taglio dei consumi per ben il 55% delle famiglie.

A fronte di questo quadro in cui regna l’incertezza e le fragilità si fanno più minacciose, l’80% di quegli stessi italiani vede nella maggiore cooperazione tra le persone una delle strategie possibili per mettersi un po’ più al sicuro. Addirittura il 72% cerca di intensificare forme di mutualismo.

Ci ritorna in mente il finale del film “Don’t Look Up” allorché di fronte a una fine del mondo ormai certa le persone sentono il bisogno di raggrupparsi in una piccola comunità spontanea e condividere una cena.

E il mondo delle imprese cosa può fare per rispondere a questa profonda domanda sociale di comunanza e di condivisione?

Tra i tre paradigmi che può avere oggi un’idea imprenditoriale (circular, subscription e sharing economy) può immaginare business fondati sulla sharing economy.

Per noi, poi, che siamo un’impresa sociale ci vien da aggiungere anche l’intercettare capitali che abbiano a cuore l’impatto sociale e/o ambientale positivo e, da lì, promuovere forme di welfare collaborativo o generativo come il nostro cohousing.

Fin dai nostri primi passi in MeWe abitare collaborativo e nella fase di avvio della nostra impresa, meno di tre anni fa, parlavamo di economia collaborativa, di una forma d’impresa non estrattiva ma redistributiva.

Avevamo già chiaro il nostro obiettivo: quello di cercare ed esplorare pratiche di de-colonizzazione dalla cultura d’impresa che viene dalla Silicon Valley e che, a nostro avviso, ha generato evidenti distorsioni macro e micro economiche.

Un immaginario che, sempre a parere nostro, domina e distorce il concetto di imprenditorialità (e imprenditività), alimentando un sistema di produzione del valore che riteniamo tossico.

Decolonizzare l’immaginario, per usare il titolo del libro di Serge Latouche, ecco la mission.

Oppure, citando il filosofo Cornélius Castoriadis “ciò che si richiede è una nuova creazione di immaginario di un’importanza senza pari nel passato, una creazione che porrebbe al centro della vita umana altri significati rispetto all’espansione della produzione e dei consumi, che indicherebbe degli obiettivi di vita differenti in tal modo da poter essere riconosciuti dagli esseri umani come obiettivi per cui vale la pena vivere. […] In ciò consiste l’immensa difficoltà che siamo chiamati a fronteggiare. Dovremmo volere una società in cui i valori economici abbiano cessato di essere centrali (o unici), dove l’economia è rimessa al suo posto quale semplice mezzo della vita umana e non come suo fine ultimo, nella quale, perciò, si rinunci a questa folle corsa verso la crescita indefinita dei consumi. Tutto questo non è necessario solo per evitare la distruzione definitiva dell’ambiente terrestre, ma anche e soprattutto per liberarsi dalla miseria psichica e morale dei nostri contemporanei”.

Il problema dei problemi, per dirla con Amitav Ghosh, resta la crisi di immaginazione della società contemporanea, una società in cui gli individui difficilmente trovano nei contesti educativi o formativi istituzionali lo spazio e la possibilità di allenare le competenze relazionali e di sviluppare lo sguardo per visualizzare alternative più desiderabili.

In alternativa all’idea di impresa (quasi) univoca rimane possibile mettere a sistema una nuova forma di generazione d’impresa che parta dalla sostenibilità individuale e dal cambiamento positivo su un contesto come fattori che definiscano il «mestiere» dell’impresa: un’impresa, appunto, che metta insieme il sentire, il pianificare, il desiderare, la dignità del lavoro.

Un modello di sviluppo imprenditoriale dove c’è un rapporto equilibrato tra valorizzazione individuale nel progetto di impresa e sostenibilità di esistenza, dove l’approccio è collaborativo e non competitivo e dove il valore viene generato e re-distribuito al proprio territorio, non estratto.

Chiuderemmo il nostro ragionamento invitando un immaginare forme imprenditoriali che sì parlino l’inglese della Silicon Valley ma pensino in spagnolo, in portoghese, in greco, in turco o in arabo, cioè nei modi in cui le società che si affacciano sul nostro mar Mediterraneo hanno plasmato nel lungo periodo le loro società.