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Cohousing: cos’era, cos’è

Parlare di narrazione costruttiva in riferimento al cohousing (o altre forme di abitare condiviso) oggi, a nostro avviso, è estremamente importante. Sono molte, infatti, le realtà che si stanno avvicinando a quello che, per noi, è un autentico stile di vita. Sempre più spesso si leggono i termini “abitare condiviso”, abitare creativo, abitare sostenibile e […]

Parlare di narrazione costruttiva in riferimento al cohousing (o altre forme di abitare condiviso) oggi, a nostro avviso, è estremamente importante. Sono molte, infatti, le realtà che si stanno avvicinando a quello che, per noi, è un autentico stile di vita.
Sempre più spesso si leggono i termini “abitare condiviso”, abitare creativo, abitare sostenibile e via discorrendo senza entrare, però, nel cuore del meccanismo.

Cohousing: cos’era, cos’è

Da definizione enciclopedica con il lemma cohousing si identifica un modello abitativo nato in Scandinavia negli anni Sessanta e diffusosi successivamente nell’Europa del nord, in Australia, negli Stati Uniti e in Giappone, che combina l’autonomia dell’abitazione privata e la condivisione di spazi e servizi comuni da parte di un gruppo limitato di nuclei famigliari.
Nel tempo, specialmente in Italia, si è iniziato a parlare di coresidenza ovvero di un insieme di insediamenti abitativi composti da alloggi privati, corredati da ampi spazi comuni (coperti e scoperti) destinati all’uso collettivo e alla condivisione tra i coresidenti.
Oggi questa matrice è certamente ancora presente, ma deve essere allargata al quartiere e, ancora più, al nucleo persona, alla comunità intenzionale. Il centro del cohousing e dell’abitare condiviso sono le persone, i luoghi arrivano in un secondo momento.
Ecco perché la componente “casa”, nel senso letterario del termine, per MeWe abitare collaborativo gioca un ruolo importante ma non fondamentale: il nostro scopo principale è quello di costituire uno spazio, fisico e non, a misura di individui. Individui accomunati da passioni ed esigenze simili che possono trovare aiuto e collaborazione, appunto, gli uni dagli altri. Una sorta di welfare abitativo dove in cui i più giovani si prendono cura dei più anziani e viceversa con un abbattimento della povertà sociale e non solo.
Ecco perché quando si affronta il termine cohousing è necessario rivedere la narrazione che sta attorno a esso implementandola e arricchendola con l’esperienza post pandemica e in ottica valoriale.

Dagli edifici alle persone ai quartieri: è necessario riscrivere l’immaginario collettivo

Non si può più pensare alla “comune” hippy degli anni sessanta né tantomeno a un’istituzione studentesca: oggi il cohousing, se ben realizzato, è a tutti gli effetti un pezzo di quartiere partecipato e sostenibile dove gli edifici vengono realizzati secondo le necessità dei loro abitanti e in cui le relazioni con il contesto sono vive.
Come scritto anche da Michela Trada nel suo blog post sullo storytelling del cohousing e dell’abitare condiviso è necessario uscire dall’archetipo di casa-famiglia per arrivare a quella di casa-residenza valoriale. La vita di città, oggi, è vita di quartiere: gli abitanti si identificano nel quartiere di residenza e non più nel singolo comune. E uno specifico quartiere può trarre energie anche da un cohousing vitale. (MT)