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Cohousing e coliving: è la comunità che fa la differenza

Spesso ci viene detto: “Ma perché non partite dall’immobile da ristrutturare?”. Perché non sarebbe un vero abitare condiviso ma, molto probabilmente, sarebbe un’altra cosa. Quest’altra cosa la vedi, di tanto in tanto, nelle notizie dal mercato immobiliare: qualche volta viene chiamato coliving, qualche altra volta addirittura cohousing. Qualche volta prevale un giudizio “Dickensiano” basato sulle […]

E' dalla porta di casa che riconosci l'esistenza o meno di una comunità

Spesso ci viene detto: “Ma perché non partite dall’immobile da ristrutturare?”. Perché non sarebbe un vero abitare condiviso ma, molto probabilmente, sarebbe un’altra cosa.
Quest’altra cosa la vedi, di tanto in tanto, nelle notizie dal mercato immobiliare: qualche volta viene chiamato coliving, qualche altra volta addirittura cohousing. Qualche volta prevale un giudizio “Dickensiano” basato sulle anguste condizioni di vita vittoriane che gli sviluppatori affamati di profitto propongono e vendono. In qualche altro caso, invece, prevale la lettura di una tipologia abitativa essenziale, orientata alla domanda, soprattutto dedicata a lavoratori temporanei che chiedono un prezzo accessibile.

Nonostante i nomi che suonano simili e la comprensibile confusione che ne deriva, ciò che deve essere chiaro è la differenza tra un coliving e un cohousing. Il primo, anche se viene venduto con una visione della vita in comunità e dell’interazione sociale, difficilmente potrà mai essere una casa alla base di un progetto di vita: sarà una risposta temporanea, e probabilmente necessaria, per alcuni. Il cohousing o altra tipologia di abitare condiviso, invece, è una soluzione a lungo termine, con la comunità che diventa davvero la protagonista.

Allora qual è la differenza? A nostro avviso, la differenza è data dal soggetto che viene posto al centro del processo di costruzione. In un vero e proprio cohousing, pur con tutte le differenze riscontrabili nella prassi, si ha a che fare con un modello guidato e finanziato da una comunità intenzionale, non dagli sviluppatori. Sicuramente ci sono somiglianze con il coliving, come l’efficienza nell’uso dello spazio e la presenza di spazi condivisi, ma la differenza è data dal ruolo che è assegnato alle persone (alla comunità intenzionale) che useranno quegli spazi.

Per MeWe abitare collaborativo, promuovere una qualunque forma di abitare condiviso, significa prima di tutto costruire una comunità intenzionale di individui e, in questo processo, la figura dello sviluppatore immobiliare esterno sparisce. In questo senso, l’abitare condiviso è un’iniziativa che parte da un gruppo di persone, una comunità che, guidata e assistita, decide di intraprendere un progetto abitativo nel rispetto dei suoi valori e principi e solo nel momento in cui ha le cose chiare come gruppo, passa a intraprendere lo sviluppo del progetto, il finanziamento e la costruzione dell’edificio.
In questa modalità, MeWe abitare collaborativo, come dice bene sAtt in questo pezzo sul suo blog, accompagna il gruppo di futuri cohousers in tutte le fasi, con il compito principale di fornire le conoscenze professionali e rendere il compito di autopromuoversi la realizzazione della propria casa il più semplice possibile per il gruppo stesso.

E il coliving? In questo caso, l’iniziativa proviene sempre da uno sviluppatore esterno. Ed lo sviluppatore che cerca l’immobile, definisce l’architettura e le modalità di finanziamento dell’intervento e, solo all’ultimo, entrano gli abitanti a costituire la comunità. E proprio dal punto di vista sociale, seppure l’architettura deve affrontare gli stessi scopi sociali e relazionali, la costruzione dell’effetto comunitario è molto più difficile, poiché non si lavora dall’inizio con un gruppo specifico che definisce uno scopo comune, come in il caso del cohousing. E questo non è un sottoprodotto, ma è sostanza…