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Un cohousing è una casa senza cucina? (parte seconda)

Nella prima parte del ragionamento che abbiamo portato avanti sul rapporto che potrebbe avere una casa con la cucina in un cohousing o in altra forma di abitare collaborativo o abitare condiviso, abbiamo fatto un giro del mondo nel tempo. Ora ci spostiamo in Occidente e, ancor di più, in Italia e, sempre con l’aiuto […]

Nella prima parte del ragionamento che abbiamo portato avanti sul rapporto che potrebbe avere una casa con la cucina in un cohousing o in altra forma di abitare collaborativo o abitare condiviso, abbiamo fatto un giro del mondo nel tempo. Ora ci spostiamo in Occidente e, ancor di più, in Italia e, sempre con l’aiuto di Anna Puigjaner, proviamo a fornire qualche risposta per l’oggi e il domani.

Chi può vivere in una casa senza cucina?
Questa tipologia di casa dovrebbe essere inquadrata nel mercato di fascia medio-alta nelle parti centrali delle città. Sono le case dei babyboomers in età avanzata che, in coppia o single, sentono la “sindrome del nido vuoto” dopo che i figli sono andati al college o all’università. Allo stesso tempo, c’è il settore dei giovani millennials che cercano un prodotto simile.
Entrambi condividono un denominatore comune: hanno redditi apprezzabili (almeno negli USA e in altre parti d’Europa) e possibilità di spendere in cose che il resto della società, molto probabilmente, non può permettersi. Alcuni di loro hanno la possibilità di mangiare fuori tutti i giorni. Non vogliono cucinare. Altri scelgono semplicemente di vivere in un certo quartiere o in una certa città a qualunque prezzo. Sono in grado di sacrificare metri quadrati di abitazione -e le comodità necessarie- per ridurre il costo dell’affitto. Infatti con un forno a microonde e un frigorifero di design (?) è possibile scaldare qualsiasi cibo quando non vogliono scendere in strada ed entrare in un locale.
Questa è la nicchia socioeconomica per cui le case senza cucina ha perfettamente senso. Ma questa nicchia non è la middle-class a cui si rivolge MeWe abitare collaborativo: la middle-class non vuole e non può permettersi di mangiare fuori la maggior parte dei giorni. E, soprattutto, quelle case senza cucina non le possiamo chiamare cohousing e neppure in altre forme riconducibili all’abitare collaborativo o all’abitare condiviso: al più, le possiamo chiamare coliving e, soprattutto, al centro non ci sono i membri della comunità intenzionale (cioè i cohousers), ma il promotore immobiliare, in quanto la logica con cui sono pensate è essenzialmente quella di estrarre valore dai coabitanti. Insomma, l’esatto contrario del cohousing come intende MeWe abitare collaborativo.

Le case senza cucina, inoltre, sono suscettibili di entrare in crisi anche in caso di successive compravendite: la stessa casa che nasce senza cucina, infatti, deve avere la capacità di essere “vissuta” nel tempo da persone molto diverse. Altrimenti, diventa un prodotto immobiliare un po’ troppo di nicchia. Chi arriva in una casa senza cucina, infatti, si trova un bene immobiliare che rischia di essere privo di impianti, ventilazione, scarichi: in altri termini, se il nuovo acquirente volesse realizzare la sua cucina, dovrebbe rifare un bel pezzo della sua nuova casa.

Nell’idea di vita comunitaria che si ha in MeWe abitare collaborativo, il cibo non proviene da dark kitchens e la cena non viene consegnata a domicilio dai riders di Uber Eats o Deliveroo, ma piuttosto quello stesso cibo viene prodotto anche in cucine comunitarie. Cucine comuni, però, non proprio uguali a quelle che abbiamo visto in Giappone o in Messico o in Perù.
Quelle cucine comunitarie, infatti, potrebbero andar bene in contesti urbani e molto densi, in quei contesti in cui in qualche isolato vivono circa 1500 persone e, tra quelle, è probabile che siano dai 100 ai 300 gli individui che avrebbero interesse ad andare a mangiare in una cucina comunitaria. Al di fuori delle città di grandi dimensioni, le cucine in comune dell’abitare condiviso è ben difficile siano cucine professionali.

Ma alla fine, la cucina in un alloggio di un abitare condiviso, c’è o non c’è?
Noi di MeWe abitare collaborativo, pur aggiornando il ruolo sociologico della cucina, concludiamo che, costose o economiche, le case devono fornire una risposta tecnica e funzionale a uno dei piaceri intimi che gli abitanti possono godere: il piacere di cucinare. A casa con e per il tuo partner, la famiglia o gli amici.
Le singole unità immobiliari in cohousing o in altre forma di abitare condiviso che non hanno una stanza dedicata alla cucina hanno una piccola cucina in una stanza che può essere adibita anche ad altri usi: un esempio, per rimanere ad Anna Puigjaner, è 110 rooms a Barcelona. Ecco il trucco: avere elettrodomestici che posso usare per cucinare. La cucina compatta o il classico american bar emerso negli Stati Uniti alla fine del XIX secolo, da sempre associato a una cucina collettiva, erano angoli dove di tanto in tanto si poteva cucinare.
Quindi, come in tante altre cose, l’equilibrio sarà probabilmente a metà strada: dotare gli edifici di spazi in comune dove cucinare e mangiare insieme e, al contempo, ciascuna famiglia avrà il suo modo di fare casa e, quindi, di fare cucina: se non un’intera cucina attrezzata almeno dotare gli appartamenti di una sorta di credenza/cucina in soggiorno. Vedremo quanto tempo ci vuole a IKEA per progettarla.

Nel frattempo, come non accade sulla stampa, iniziamo a distinguere tra alloggi in cohousing e monolocali in coliving: nel primo caso è giusto classificarli nell’abitare condiviso con tutto ciò che ne consegue, nel secondo, invece, ci troviamo di fronte un nuovo prodotto dell’industria immobiliare e l’obiettivo è il profitto.