Nel realizzare “la casa”, la propria casa, che sia un cohousing o altra forma di abitare collaborativo, abitare condiviso o anche in qualche forma più ordinaria si passa attraverso il concetto di cucina e di come si consuma il cibo. Non è, ovviamente, l’unica domanda cui dobbiamo rispondere, ma è una delle domande più importanti.
C’è qualcosa di provocatorio e allo stesso tempo rivelatore nell’atto scegliere di eliminare, o comunque di ridefinire profondamente, il ruolo della cucina nella casa. Scegliere di eliminarla spesso provoca un rifiuto sociale e ciò permette di comprendere l’affetto profondo che questo spazio domestico suscita.
Dal punto di vista ideologico, infatti, la cucina ha avuto un ruolo fondamentale nella definizione storica di “casa” e di “famiglia” e, successivamente, nella definizione delle relazioni di genere nell’ambito domestico.
Prima di provare a capire come può essere una cucina in un cohousing (spoiler: non c’è una ricetta univoca ma, al più, c’è una tendenza rilevabile) è utile andare a vedere da dove arriviamo, almeno per tappe principali. Per far questo ci facciamo assistere dal lavoro di ricerca di Anna Puigjaner che, per portarla a compimento, ha anche ottenuto una borsa di studio da Harvard (qui, qui e qui). Sì, perché non abbiamo sempre abitato in case modellate come quelle che vediamo oggi…e nelle tappe essenziali che vediamo un bel po’ di ideologia la ritroviamo.
Prima tappa: family hotel nella città industriale
La casa tra otto e novecento è rappresentata essenzialmente in “boarding houses” o “family hotel” dove vive la borghesia in senso lato (dagli avvocati ai negozianti) e in cui troviamo molti single, anziani e piccole famiglie con un solo figlio. Le donne stavano entrando nel mondo del lavoro e il servizio domestico era diventato molto costoso; l’idea era quindi quella di esternalizzare e industrializzare l’assistenza domiciliare.
Questi edifici erano dotati di “servizi comuni” quali la lavanderia, l’asilo nido, il medico e persino personale amministrativo per scrivere le lettere; le camere non avevano la cucina ma avevano “frigoriferi” a due sportelli: uno che dava verso l’interno della casa, e un altro rivolto verso gli spazi comunitari, in modo che i “cohousers” dell’epoca potessero ricevere le loro ordinazioni di cibo anche se non erano in casa. I pasti erano generalmente preparati in una sala da pranzo aperta a tutti i “cohousers”.
Questo tipo di abitazione, forse più simili a quel che vediamo oggi in un albergo più che in un cohousingo altro tipo di abitare condiviso come lo intende MeWe abitare collaborativo, non sopravvissero alla crisi economica del 1929, in parte a causa del collasso economico, ma anche perché quel modo di vivere “in condivisione” suonava sospettosamente sovietico. A testimonianza di quanto ideologia ci fosse in quei modi di abitare, è curioso che il presidente Hoover, parallelamente a ciò che teorizzava, abbia comunque sempre mantenuto la sua residenza proprio nell’hotel Waldorf Astoria a NYC e cioè in un family hotel appunto…
Seconda tappa: la cucina di Francoforte.
Il primo modello di stanza contemporaneo progettato specificamente per essere una cucina è stato costruito a Francoforte nel 1925 dove l’architetto Ernst May stava progettando un edificio nel quartiere di Römerstadt. Fino ad allora la “zona cottura” faceva parte del soggiorno. May commissionò all’architetto austriaco Margarete Schütte-Lihotzky di disegnare, a basso costo, un locale incentrato esclusivamente “sul lavoro delle donne”. Se studiamo la biografia della Schütte-Lihotzky la troviamo sorprendente e capiamo anche come le migliori intenzioni abbiano in sé molte conseguenze inintenzionali.
La Schütte-Lihotzky si mette di buona lena e progetta una vera e propria macchina molto efficiente per lavorare nella preparazione dei cibi senza interferenze maschili, con piani di lavoro rimovibili, piastra pieghevole, adattamento dei nuovi tubi del gas in cucina e riscaldamento, un’intera set di cassetti per conservare riso, zucchero, pasta o caffè, grattugia da pane alla manovella per fare “schnitzel”, e uno studio completo di ottimizzazione dei movimenti per ridurre la fatica e guadagnare minuti di tempo libero.
Alla base di quella ideazione possiamo anche vedere un barlume di efficace ed efficiente esclusività dedicata alle donne (che comunque non chiameremmo “intenzione di emancipazione”), esclusività che, negli anni, si è trasformato in “reclusione”.
Consideriamo inoltre che dopo la crisi del 1929, c’è un forte interesse ad aumentare i consumi interni e quindi la ideazione di elettrodomestici e la loro commercializzazione che diventa ben redditizia se l’acquisto è individuale (10 famiglie = 10 lavatrici) anziché collettivo (10 famiglie una sola lavatrice di tipo industriale).
Questa gigantesca idea di sostegno al consumo interno al Paese si fonda sui bisogni domestici e si trascina dietro anche la volontà politica che le donne tornino a casa…
Le nostre case, se non con minime variazioni, ubbidiscono ancora a questa ideologia…anche se il dopoguerra è finito da tanto.
Terza tappa: le cucina comunitarie.
Anna Puigjaner, la nostra guida, ci racconta non del delivery food o delle dark kitchens, ma delle cucine comunitarie, soprattutto quelle in Perù, in Messico e in Giappone. Il modello giapponese, le cosiddette Kodomo Shokudo Kitchens, nasce dall’impoverimento di una parte della società, ma anche dal crescente problema della solitudine in una società altamente atomizzata.
Kodomo Shokudo nasce nel 2012 su base totalmente volontaria e sono per lo più gestiti da persone anziane. L’obiettivo iniziale era quello di offrire pasti caldi ai bambini che trascorrono molte ore da soli dopo la scuola, in attesa del rientro a casa dei genitori. Oggi sono circa 600 e prestano servizio a prezzi estremamente contenuti e senza aiuti istituzionali. Non esiste una definizione legale di Kodomo Shokudo e non è richiesta alcuna certificazione o registrazione per aprirne uno: le dimensioni, la frequenza, chi può partecipare e altri dettagli dipendono unicamente da chi lo gestisce. Una cucina comunitaria così la si trova in templi, centri comunitari, case private o anche in ristoranti fuori orario, tutti i giorni o mensilmente, per servire da 10 a più di 100 pasti.
A questo punto, possiamo iniziare a tirare un po’ le somme e delineare il tipo di rapporto che potrebbe avere una casa con la cucina, in un cohousing o in altra forma di abitare collaborativo o abitare condiviso pensandola adatta alle famiglie come sono oggi e non più identificandole/confondendole con quelle del ’29 o del dopoguerra.
Però dobbiamo chiederci, dopo aver fatto un po’ il giro del mondo con Anna Puigjaner: chi vivrebbe in una casa senza cucina in Occidente e in Italia?
E ancora: come, in caso di successive compravendite, la stessa casa senza cucina potrebbe avere la capacità di essere “vissuta” da persone molto diverse?
E infine: questo tipo di alloggio sarebbe “adeguato” anche al potere d’acquisto del ceto medio che, senza la cucina in casa, si troverebbe a dover “pagare” per un servizio esternalizzato? …
Qualche risposta nella seconda parte.