Nell’ultimo blogpost analizzavamo la trasformazione della domanda sociale di casa che si arricchisce di specifiche richieste di servizi di varia natura. Qui, invece, esaminiamo le tendenze che vedono trasformare i soggetti non profit, come lo è MeWe abitare collaborativo, che tradizionalmente si occupano di casa allorché si trovano a promuovere progetti di cohousing o delle altre forme di abitare condiviso che prevedono un ruolo attivo dei beneficiari in veste di “co-produttori” del bene di cui fruiranno.
La cooperazione prima del cohousing
Il modello di abitare sociale realizzato tradizionalmente dai soggetti non profit, segnatamente cooperative di abitanti e loro consorzi, si è già basato sul coinvolgimento attivo dei beneficiari.
Questi ultimi infatti apportano una quota parte, seppur ridotta, di risorse volontarie in forma di auto costruzione ma, soprattutto, si fanno carico delle risorse finanziarie necessarie per la costruzione del loro alloggio e, inoltre, possono contribuire a capitalizzare il soggetto gestore del loro organismo abitativo (spesso una cooperativa di abitanti).
Il developer non profit, da parte sua, apporta importanti risorse di networking per gestire la rete di professionisti e di imprese che si fanno materialmente carico della costruzione degli alloggi.
I processi che trasformano la casa in cohousing
Nel corso degli ultimi anni diversi soggetti che operano nell’ambito dell’imprenditoria sociale hanno tentato di incorporare, accanto alla classica offerta di servizi a favore dell’accesso alla casa in “proprietà in cooperativa”, anche ulteriori attività che ne individuano la dimensione trasformativa in funzione dei seguenti driver:
– l’accessibilità alla casa rispetto ai costi come strumento di inclusione a favore della cosiddetta “fascia grigia” della popolazione che non può accedere né all’offerta pubblica né a quella di mercato;
– l’attenzione alla sostenibilità ambientale degli immobili sia a livello di prestazioni energetico ambientali e sia di qualità costruttiva;
– la partecipazione dei futuri abitanti come co-costruttori dell’immobile in modo da rafforzare la coesione del gruppo degli abitanti anche “in corso d’opera”.
Questi tre processi non sono esclusivi del cohousing e delle altre forme di abitare condiviso ma, allorché intervengono contemporaneamente, la forma di abitare del cohousing si evidenzia con nettezza.
Come si trasforma chi promuove la casa in cohousing
Fare casa sociale in cohousing, oggi, consiste in una gestione integrata sia della parte “hard” della progettazione tecnica e del cantiere, sia di quella “soft” di coltivazione di una comunità di abitanti inclusiva rispetto a elementi di diversità e di fragilità sociale.
Si tratta ancora di una nicchia rispetto ad altri modelli di affordable housing sviluppati sia in ambito cooperativo sia da altri attori come, ad esempio, Fondazione Housing Sociale. Ma proprio per il suo carattere “taylor made” rispetto ai bisogni, il modello di abitare riconducibile al cohousing e alle varie forme di abitare condiviso presenta elementi di peculiarità e vantaggi sociali che meritano di essere sostenuti.
Questo modello, che potremmo continuare a chiamare di autocostruzione, allorché oggi è chiamato a innovare la forma di casa in cooperativa per rispondere alle nuove domande di relazione e di mutualità, richiede un’attività di community organizer particolarmente inclusiva rispetto a fasce deboli della popolazione relativamente alla quale emerge anche la peculiarità dell’impresa sociale promotrice.
Le nuove risorse di un promotore sociale di cohousing
La coltivazione della comunità di abitanti tipica del cohousing si può ricondurre al lavoro tradizionale delle cooperative di abitanti che intorno a un’opportunità immobiliare aggregano soggetti interessati a investire e, a seconda dei casi, a condividere alcuni spazi e servizi di facility.
Nel caso degli interventi maggiormente riconducibili al cohousing si notano, però, due elementi di peculiarità a proposito della comunità di abitanti.
Il primo riguarda il maggior tasso di diversità interna dell’aggregazione promuovendo un mix molto variegato di portatori di bisogni, interessi e risorse. Questa maggiore diversità richiede, come secondo elemento di peculiarità, un lavoro più intenso di community organizer che si mette in pratica anche dando la possibilità ai futuri abitanti di partecipare ai lavori di programmazione, progettazione e, financo, costruzione di specifiche parti, per un numero di ore (che può arrivare anche a qualche centinaio) tale da generare una maggiore coesione in una comunità che, a differenza di altre esperienze di abitare sociale, si caratterizza per maggiori livelli di omogeneità di bisogni, risorse e background culturale tra coloro che vi partecipano.
Resta da capire se l’attività di community organizer e le relazioni attivabili in un cohousing siano tale da rispondere a tutte le necessità portate dalla domanda emergente di servizi di cui abbiamo parlato la scorsa settimana. Sarà argomento di una terza puntata…