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Quelli che fanno cohousing e quel che hanno da imparare da un ultra novantenne

La Royal Gold Medal è un riconoscimento annuale per l’architettura che viene assegnato ininterrottamente dal 1848 dal Royal Institute of British Architects (RIBA) a nome del monarca britannico, come riconoscimento a un singolo o a un gruppo che ha dato un sostanziale contributo all’architettura internazionale. Questa settimana è stato assegnato all’indiano Balkrishna Doshi. E noi […]

...e quel che insegna a chi oggi fa cohousing

La Royal Gold Medal è un riconoscimento annuale per l’architettura che viene assegnato ininterrottamente dal 1848 dal Royal Institute of British Architects (RIBA) a nome del monarca britannico, come riconoscimento a un singolo o a un gruppo che ha dato un sostanziale contributo all’architettura internazionale. Questa settimana è stato assegnato all’indiano Balkrishna Doshi. E noi di MeWe abitare collaborativo ne siamo contenti.

Vediamo il perché. Doshi, oggi, ha 94 anni. Questo premio poteva essere assegnato almeno vent’anni prima: arriva solo adesso non perché in questi ultimi anni il vincitore abbia fatto qualcosa di nuovo ma, semplicemente, perché il RIBA ha inseguito ed insignito i vari Jean Nouvel, Rem Koohlaas o qualche altra persona cinica di grande talento che abbiamo chiamato archistar. Uno come Balkrishna Doshi è differente ed è questa differenza che poteva essere premiata prima e che piace a noi di MeWe abitare collaborativo.

Ma Doshi si occupa di cohousing o di altre forme di abitare condiviso vi chiederete? No, Doshi aveva altri “problemi” da risolvere e ciò che ci interessa portare nei nostri progetti di abitare condiviso o di cohousing è il suo approccio architettonico che sintetizziamo in tre aspetti:
a) l’idea di casa come un’entità vivente che può mutare nel tempo;
b) la necessità di dar vita a organizzazioni di scopo finalizzate a trattare i problemi abitativi;
c) lo spazio fisico dell’abitare come cornice della vita e della piccola società che vi abita.

L’idea di casa come un’entità vivente che può mutare nel tempo
“Anche se è fatta di mattoni, l’abitazione non può essere pensata come un qualcosa di immutabile – sostiene Doshi – e la cosa più importante è pensare al progetto nel tempo. L’alloggio non è inerte. È un’entità vivente”. Vediamo la genesi di quest’idea.
Una grande percentuale di popolazione urbana in India è costituita da operai e nuovi migranti che non hanno opzioni di alloggio in città e, quindi, spesso vivono in insediamenti informali. Dopo l’indipendenza dell’India, il governo ha collaborato con imprese private come il Physical Research Laboratory, la Gujarat State Fertilizer Corporation, la Indian Farmer’s Fertilizer Company e la Madhya Pradesh Electricity per promuovere numerose township. Queste aziende erano spesso situate in località remote per ragioni strategiche, incluso l’accesso alle risorse, ed erano quindi tenute a costruire alloggi per il loro personale. All’epoca in cui Doshi lavorò al piano generale del suo intervento più paradigmatico, cioè Aranya, gli investimenti governativi nelle abitazioni erano in declino, ma le unità abitative standard costruite dallo Stato e interamente sovvenzionate erano, e rimanevano, soluzioni inadeguate per ricollocare gli abitanti degli slum.
Rispetto a questo enorme problema di quantità di domanda da soddisfare e di velocità nel realizzare le case, Doshi come si comporta? Aranya non è un semplice progetto abitativo capace di ridurre la grave carenza di alloggi disponibili in città. Dei 6.500 lotti pianificati per lo sviluppo, il 65% era riservato a quella che il governo indiano aveva classificato come la sezione economicamente più debole della società -all’epoca questi lotti erano trentacinque metri quadrati e assegnati a coloro che guadagnano trentacinque dollari al mese- mentre il resto accoglieva alloggi a prezzi di mercato per i residenti a reddito più elevato.
Al fine di offrire una percentuale così elevata di lotti a basso reddito pur mantenendo uno sviluppo immobiliare finanziariamente sostenibile, Doshi ha adottato un approccio tale da garantire l’immediata realizzazione delle infrastrutture di base di alta qualità su cui i residenti potevano completare le proprie abitazioni aggiungendone parti di volta in volta. L’architettura iniziale fornita era costituita da nuclei di servizio (una latrina e un rubinetto dell’acqua o un bagno) con impianto idraulico, approvvigionamento idrico, elettricità e accesso stradale, dal basamento in cemento e da un primo involucro in mattoni portanti con pareti intonacate e tinteggiate (la cucina) che i residenti potevano espandere e consolidare nel tempo man mano che le risorse finanziarie di ciascuno si rendevano disponibili.
Molti elementi di una casa venivano aggiunti dopo: ringhiere, parapetti e cornici. Altri, come le porte e le finestre, venivano fabbricate in loco quasi in autocostruzione.
L’architetto ha disegnato solo una serie di ingredienti di cui appropriarsi, dando ai residenti il linguaggio e lo spazio da cui partire per “migliorare la loro vita”. La crescita di Aranya è pianificata ma informale, regolata dalla gerarchia di forme costruite e dagli spazi aperti del masterplan e tenuta insieme solo da un reticolo di linee infrastrutturali. Il progetto riguarda soprattutto il potenziamento delle capacità dei residenti, l’attivazione di relazioni e il cambiamento delle percezioni che si hanno intorno all’abitare.
La prima lezione che noi di MeWe abitare collaborativo portiamo nei nostri futuri cohousing la lasciamo dire direttamente a Doshi: “L’acquisto di una casa non la fa automaticamente tua, nel momento in cui dai all’acquirente la proprietà, poiché fornisci lui solamente le fondamenta della sua casa. Contemporaneamente, e quasi inevitabilmente, una volta che i residenti si sono trasferiti, il progetto non appartiene più all’architetto. Fisicamente, finanziariamente e intellettualmente diventa loro a tutti gli effetti”.

La necessità di dar vita a organizzazioni di scopo finalizzate a trattare i problemi abitativi
Per affrontare la sfida di garantire l’accesso alla casa a tutta la popolazione indiana, sostanzialmente in modo indipendente dal reddito familiare, in parallelo con la sua attività di progettazione Balkrishna Doshi nel 1978 ha istituito la Fondazione Vastushilpa. L’organizzazione non profit operava quale collegamento tra mondo accademico della ricerca e professionisti impegnati sul campo, al fine di sviluppare metodi innovativi per migliorare la qualità ambientale degli insediamenti.
Ad esempio, dalla fine del 1970 alla fine del 1980 la Fondazione ha collaborato a vari progetti con il Minimum Cost Housing Group presso la McGill University, fondata nel 1971, potendo così sviluppare l’impegno per la ricerca e la progettazione innovativa di edilizia low cost e sostenibile nei Paesi in via di sviluppo. Proprio attraverso quel rapporto è stato possibile condurre un ampio studio sugli insediamenti informali che ha documentato meticolosamente come operavano di fatto le comunità e come chi era escluso dal disporre di un alloggio stava, in realtà, già costruendo la propria casa. In particolare, è stato solo grazie alla modalità operativa della Fondazione Vastushilpa e non grazie allo studio di progettazione che Doshi ha scelto di sviluppare la commessa per il progetto Aranya Low Cost Housing nei primi anni ’80 e i ricercatori del Minimum Cost Housing Group hanno partecipato e registrato tutte le diverse fasi del suo sviluppo. Grazie a questa collaborazione di scopo è stata definita e implementata l’innovazione che abbiamo visto nel precedente paragrafo.
Pur nella sintesi, potrebbe esser più evidente perché MeWe abitare collaborativo non è un multistudio professionale ma un’impesa sociale che accoglie e promuove partnership e le competenze più diverse: questo ci sembra l’ambiente organizzativo ideale capace di promuovere l’innovazione culturale nei modi di abitare che è connessa all’abitare condiviso e al cohousing.

Lo spazio fisico dell’abitare come cornice della vita e della piccola società che vi abita
Come detto, Balkrishna Doshi ha progettato una serie di città aziendali ma, a differenza dei progetti di edilizia residenziale pubblica o a basso reddito in India (e non solo) che erano spesso risolti meccanicamente attraverso la proliferazione di isolati ripetitivi e tali da risultare desolanti, i suoi progetti erano vivaci: l’architettura permetteva che la vita di tutti i giorni continuasse e che le comunità si formassero e prosperassero. L’approccio di Doshi rispondeva ai bisogni dei suoi utenti nel modo più umile ed empatico possibile.
Rimanendo ancora ad Aranya, la costruzione e il rafforzamento dei legami tra attività sociali e strutture fisiche si traduce in specifici elementi architettonici: il basamento sottostante al quale si aggiungono gradini e cornicioni, pianerottoli condivisi, balconcini e terrazzi aperti a volte anche in comune, mentre l’intimità o la privacy è conservata in nicchie e angoli privati. I legami tra attività sociali e strutture fisiche si traducono in questi elementi architettonici.
Qui l’idea è che ogni spazio venga utilizzato in più modi e anche in modi non previsti. Proprio come i portici profondi e ombreggiati delle città medievali non solo aiutano a isolare l’interno, ma forniscono anche un’estensione della casa nella sfera pubblica, Aranya si basa sulla costruzione di pause e sulla realizzazione di soglie allungate che estendono una casa di famiglia al di là delle sue mura fisiche: infatti, non c’è un unico muro che delimita l’ingresso e le scale non servono solo per salire e scendere. La vita pubblica può penetrare, estendere e permeare gli spazi abitativi.
Piuttosto che “trattare un progetto come un incarico”, Doshi pensa che l’atteggiamento di un progettista dovrebbe essere “dare una possibilità alla vita”. In altri termini, “progettare case richiede, in primo luogo, pensare al tempo libero”. Ecco perché le sue case non sono concepite isolatamente, ma in gruppi che portano a un “ambiente totale”, in qualche modo precursore degli ambienti tipici dell’abitare condiviso e del cohousing, fondendo strutture, spazi e cultura in un insieme unificato.
Cosa ci insegna a noi di MeWe abitare collaborativo lo lasciamo direttamente alle parole di Doshi: “Il design trasforma i rifugi in case, gli alloggi in comunità e le aggregazioni in magneti di opportunità”.

L’etica nella professione
La nostra disamina su Doshi lascia altresì spazio a una riflessione più ampia circa l’etica nella professione e non solo di quella “architettonica”. Oggi, infatti, non è più sufficiente dire di essere “etici”, ma occorre dimostrarlo con i fatti; le persone chiedono ai professionisti e ai brand di farsi portavoce di una causa e di sposarla prima con il loro esempio e poi con la divulgazione dello stesso. Insomma, un sistema per evitare il rischio di dimostrarsi solo apparenza con poca sostanza. Ecco perché affermare di essere ciò che non si è nell’epoca post pandemica è molto rischioso; come risulta essere assai rischioso non prendersi a cuore una causa sentita dalla maggior parte della comunità. Il mondo ci chiede di essere “impegnati” e di esserlo per davvero. Non è più sufficiente scrivere “ecosostenibilità” sulla propria vision o nel proprio jobtitle: occorre compiere azioni verso un bene comune. Le etichette non sono più un vanto, ma spesso zavorra; ecco perché oggi la logica del “mors tua vita mea” non paga e non è più credibile pensare di giocare al “tutti contro tutti” e a “chi arriva prima”.
Chi perseguirà solamente il profitto forse avrà risultati immediati nel breve tempo, ma le sue risorse saranno esauribili; chi costruirà relazioni e lo farà con uno scopo chiaro avrà invece il serbatoio pieno a lungo. (LM+MT)