Dopo decenni in cui la diffusione della proprietà aveva indotto a pensare che la «questione abitativa» fosse ormai superata, a partire dalla crisi economica del 2008 la casa e l’abitare sono tornati al centro del dibattito scientifico, mentre occupano (ancora?) uno spazio scarso nell’agenda politica. Forse, ad accezione di quella europea.
E, invece, la «nuova questione abitativa» è davvero tale sia sotto il profilo dei bisogni abitativi e sia nella configurazione delle risposte e degli interpreti. Nei limiti di questo pezzo, vediamo che sta succedendo dal lato della domanda sociale di casa.
Quest’ultima è sempre stata considerata dalle politiche abitative (italiane, ma non solo) esclusivamente sotto il profilo economico, sia nel senso dell’esclusione abitativa dei più poveri, sia nel senso della difficoltà di accedere alla casa in modo sostenibile rispetto al livello e alle dinamiche dei redditi medi e medio-bassi. Ma oggi riteniamo che la situazione sia cambiata.
Nel senso: la domanda sociale di casa, oltre al persistere delle tradizionali questioni economiche, risulta maggiormente composita rispetto al passato, come conseguenza di almeno tre generali processi:
• l’evoluzione delle dinamiche sociodemografiche (flussi migratori, trasformazioni della struttura famigliare, invecchiamento della popolazione, crescente mobilità territoriale, ecc.);
• i cambiamenti economici (la flessibilizzazione del mercato del lavoro, la riduzione della capacità di risparmio delle famiglie, ecc.);
• i cambiamenti culturali (diffusione delle logiche della sharing economy, dei Gruppi di acquisto solidale (Gas), dei negozi dell’usato, dei sistemi di mobilità in sharing, della rinascita delle banche del tempo, delle social street, dell’interesse per nuove forme di welfare di comunità e per le monete complementari, oltre a una cultura abitativa improntata alla sostenibilità ambientale, ecc.).
A fronte di queste dinamiche, la domanda sociale abitativa ci mostra, da un lato, la necessità di superare del modello abitativo basato sull’alloggio indipendente per la famiglia singola e, dall’altro, l’emergere di almeno due categorie se non proprio nuove, almeno molto rilevanti: la domanda abitativa degli anziani e l’emergere di inediti bisogni relazionali connessi con l’abitare.
Il superamento della famiglia nucleare come unico modello di riferimento
Sono soprattutto i radicali cambiamenti della popolazione dal punto di vista sociodemografico ad agire come straordinario fattore di cambiamento della domanda (sociale, ma non solo) di casa, avendo messo in crisi il modello di famiglia nucleare tradizionale e, allo stesso tempo, avendo prodotto nuove forme di famiglia e nuovi sistemi per organizzarne la vita.
Due fenomeni in controtendenza danno più di altri il senso di quello che sta succedendo: da un lato si riduce la dimensione media delle famiglie (processo di nuclearizzazione), dall’altro cresce il fenomeno delle famiglie estese, che derivano da un incremento del nucleo familiare originario, come nei casi di coabitazione o quando una coppia si separa e i figli si ritrovano divisi tra due nuove famiglie.
Il passaggio da un unico modello di famiglia a una pluralità di forme familiari mette in discussione il modello familiare nucleare, e rivaluta un’interpretazione estesa di famiglia, nella quale l’ambito relazionale assume una nuova centralità, sia a causa della moltiplicazione dei rapporti sociali che caratterizza le famiglie ricomposte, sia come antidoto contro l’isolamento, in particolare degli anziani, amplificato dalla privatizzazione dell’abitare.
Superare il modello nucleare come chiave di lettura per la vita familiare, implica una revisione strutturale e funzionale anche del modello abitativo basato sull’alloggio indipendente per la famiglia singola.
La domanda abitativa degli anziani
I bisogni abitativi inediti connessi con l’invecchiamento della popolazione e con la conseguente diffusione di condizioni di solitudine e perdita progressiva di autosufficienza è vero che non sono nuovi, ma la loro dimensione potenziale è davvero inedita.
Noi di MeWe abitare collaborativo riteniamo che tale domanda sia portata (e sarà ancor più nel futuro prossimo) dall’alta percentuale di anziani proprietari della casa in cui vivono che si connota dalla presenza di un sistema di supporto informale da parte dei famigliari (e delle badanti): tale popolazione che invecchia esprime un bisogno di ageing in place, ossia della permanenza nel proprio domicilio quale risposta per così dire più naturale all’invecchiamento e all’aumento della vulnerabilità.
Solo che la soluzione di rimanere nel proprio domicilio, in ragione della vetustà dell’abitazione, della bassa capacità di spesa dei pensionati a fronteggiare le questioni assistenziali e del contesto problematico di residenza, rischia di trasformarsi a volte (magari, molto spesso) in una «trappola», accrescendo la vulnerabilità di questa fascia di popolazione. Per tali motivi, non ci sono garanzie che l’ageing in place si riveli una strategia qualitativamente adeguata. E, per gli stessi motivi, merita considerare con grande attenzione le forme di abitare condiviso o le esperienze di cohousing intergenerazionali.
L’emergere di inediti bisogni relazionali
L’altra faccia della nuova questione abitativa è data dall’emergere di inediti bisogni relazionali connessi con l’abitare, non così pressanti come quelli legati alla povertà abitativa, ma altrettanto rilevanti. Bisogni che necessariamente ampliano lo spettro degli interventi, dalla casa all’abitare e che intercettano anche le criticità sollevate dalla questione urbana, in primis la «capsularizzazione» spaziale e relazionale.
Registriamo una crisi funzionale dovuta al cambiamento del modo in cui la famiglia vive: la homeownership vista come traguardo sociale e anche l’uso massiccio dell’automobile, hanno inciso significativamente sulla condizione di isolamento che caratterizza le famiglie moderne. In questo contesto, il fatto che le donne lavorino sempre più fuori casa aumenta i problemi di cura di bambini e anziani, in un quadro in cui il sistema di welfare per la famiglia è particolarmente debole.
E, al contempo, registriamo una forte pressione sulla tenuta del welfare familiare indotta anche l’allungamento delle reti familiari, dovuto sia a una maggiore mobilità territoriale delle giovani generazioni che si spostano alla ricerca di lavoro, sia al fatto che le famiglie immigrate non possono contare su una rete di supporto familiare, visto che spesso i parenti rimangono nel loro paese di origine.
Per tutte queste ragioni aumentano i bisogni di assistenza e le richieste di sostegno da parte delle famiglie, che, sempre più isolate e frammentate, esprimono nuove necessità anche in termini di casa. Da ciò si sviluppa la richiesta di case più flessibili, in grado di adattarsi alle trasformazioni attraversate da chi vi abita; si guarda con rinnovato interesse a modelli abitativi che sfumano i confini tra privato e comune, alla casa come luogo di relazioni, in cui incontrarsi, trovare supporto e sviluppare nuove opportunità, anche economiche.
L’emergere dell’abitare condiviso
È indubbio che i cambiamenti di cui sopra siano fattori che alimentano una riflessione generale sull’attualità del cohousing e delle varie forma di abitare condiviso, visto in particolare come un dispositivo utile per sviluppare modelli più o meno temporanei di abitare, con cui rispondere a situazioni di vulnerabilità economica e sociale. In quest’ottica le nuove politiche abitative si intersecano e si devono integrare con quelle di welfare, a partire dalla costruzione di meccanismi di collaborazione e cooperazione tra abitanti innescati intorno alla casa.
La condivisione affronta il problema della scarsità (di risorse, di relazioni, di spazi) sostituendo l’accesso al possesso e gettando le basi per una società costruita su meccanismi circolari nei quali la socialità diventa il mezzo per creare valore. Questo approccio porta a considerare l’abitare condiviso come un processo produttivo di beni collettivi relazionali, dove a partire da alcune risorse fisiche date, i soggetti che vi interagiscono producono nuove risorse, materiali nel caso dei servizi collettivi e immateriali, nel caso del benessere sociale alimentato da relazioni cooperative e di reciprocità.
L’obiettivo è comunque e sempre migliorare il proprio benessere, attraverso la ridefinizione di un modello di buon abitare, che si declina in forme molto diverse, ma che ha come costante una spinta verso la condivisione, la partecipazione e l’autogestione, il cui impatto viene misurato dalla capacità di invadere anche territori esterni alla casa (scuola, luogo di lavoro, parchi, commercio, mobilità), influendo sugli stili di vita.
Il punto non è contrapporre la casa condivisa alla casa individuale e neanche un modello di famiglia a un altro, quanto accorgersi di quello che sta cambiando intorno a noi e provare a coglierlo, per offrire, a chi vorrà e a chi ne avrà la necessità, una soluzione abitativa appropriata alla nuova domanda sociale di casa.