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Non basta costruire “case” ma serve produrre “abitabilità”: il cohousing è proprio questo

Viviamo in un Paese in cui le politiche abitative sono (state) pensate quasi esclusivamente perché se ne occupassero quasi esclusivamente le agenzie pubbliche. In MeWe abitare collaborativo, però, abbiamo l’obbligo di chiederci se e come il terzo settore può essere visto come una risorsa utile a perseguire politiche abitative pubbliche più efficaci, cioè essere un […]

tenements prima del cohousing

Viviamo in un Paese in cui le politiche abitative sono (state) pensate quasi esclusivamente perché se ne occupassero quasi esclusivamente le agenzie pubbliche. In MeWe abitare collaborativo, però, abbiamo l’obbligo di chiederci se e come il terzo settore può essere visto come una risorsa utile a perseguire politiche abitative pubbliche più efficaci, cioè essere un attore capace di integrare e talvolta migliorare l’azione dello Stato nella produzione di edilizia residenziale.
L’ipotesi su cui si fondano le note seguenti è che il terzo settore e, nell’ambito di questo, le imprese sociali come MeWe abitare collaborativo siano utili nella qualificazione dell’offerta abitativa: cioè, siano più capaci a rispondere a una domanda abitativa sempre più complessa e frammentata cui pare né lo Stato né il Mercato siano in grado di dare risposte efficaci. Domanda abitativa non necessariamente identificabile nel cohousing ma che, in ogni caso, tende ad ampliare il concetto di casa alla presenza di beni e servizi che determinano qualche forma di socialità con i vicini.

Alcuni macro fattori quali l’assenza prolungata nel tempo di politiche pubbliche della casa, la crescita spropositata dei costi delle abitazioni e degli affitti rispetto alla minore crescita dei redditi delle famiglie, la precarizzazione del lavoro, i cambiamenti nella strutture famigliari, l’acuirsi di fenomeni migratori, hanno reso impraticabile per alcune frange della popolazione sempre più numerose ed eterogenee le tradizionali soluzioni utilizzate nel nostro paese per soddisfare il bisogno abitativo.
È questa la cosiddetta “area grigia”, cioè quella che accomuna persone che non avendo le risorse per accedere al Mercato abitativo, non hanno nemmeno le caratteristiche per accedere all’edilizia residenziale pubblica.
Ma il disagio abitativo non è solo ed esclusivamente definibile in termini economici. All’interno di questa “area grigia”, si trovano dimensioni del disagio abitativo molto diverse tra di loro, che esprimono esigenze abitative poco esplorate dal sistema dell’edilizia sociale pubblica: coppie separate con figli minori a carico, giovani coppie in procinto di lasciare la propria abitazione, anziani soli, ex carcerati, ex tossici, famiglie di stranieri in cui le donne per motivi culturali o per scarsa conoscenza della lingua non lavorano e via dicendo. Il disagio abitativo si connette quasi sistematicamente con altri tipi di disagio, più o meno conclamati, più o meno connessi al problema di avere un tetto sotto cui ripararsi.

A questo punto, per provare a capire quale può essere il contributo del terzo settore alle politiche abitative appare necessario chiarire quale sia la natura dei bene prodotti in interventi di edilizia residenziale: quando si realizza un complesso residenziale non si tratta di produrre solo unità immobiliari, ma anche tutta quella serie di beni e servizi che sono difficilmente escludibili e su cui però esistono rivalità sia all’interno dell’intervento stesso tra i condomini (i pianerottoli delle scale, i parcheggi, i giardini pertinenziali, gli orti ecc.) e sia nei confronti dei non residenti in quel condominio, ma abitanti del quartiere o fruitori della città (es. city users): pensiamo ad esempio ai servizi commerciali e agli standard urbanistici in generale (scuole, parcheggi, parchi ecc.).
Sebbene oggi si tendano a produrre edifici, anche condominiali, che rendano il più possibile esclusivo un alloggio (negli accessi e nella fruizione) e la stessa prassi urbanistica per decenni ha prodotto spazi residenziali del tutto separati dalle altre funzioni d’uso del suolo e specializzati nella funzione di alloggiare le persone, di fatto vi sono alcune componenti dell’abitare che non possono essere escludibili e che costituiscono parte rilevante dell’esperienza abitativa: quando si compra una casa, in altre parole si acquistano anche tutti questi altri tipi di beni e servizi che implicano qualche forma di socialità con il contesto e i vicini.
Anzi talvolta questi beni e servizi di club rappresentano la principale attrattiva dell’intervento: la dotazione di sale comuni, le lavanderie in comune, l’acquisto della spesa con i condomini direttamente presso i produttori agricoli, la condivisione di biciclette o automobili, ma anche servizi di assistenza alla persona come quella per gli anziani autosufficienti o la realizzazione di banche del tempo destinate al baby sitting, rappresentano un modello abitativo definibile come cohousing o altra forma di abitare condiviso, che nelle sue degenerazioni porta alla produzione di gated communities.

Quindi, produrre edilizia sociale residenziale non si può ridurre solo al realizzare case: il principale bene comune che dovrebbe essere prodotto in un intervento di edilizia sociale residenziale è quello dell’abitabilità.
E che cosa dobbiamo intendere con la nozione di “abitabilità” di un contesto residenziale da un punto di vista sociale? Fermandoci agli aspetti sociali dell’abitare, quando diciamo abitabilità possiamo includervi il prezzo stesso dell’alloggio in relazione alle capacità di spesa di una famiglia, ma anche le relazioni di vicinato e il sistema di regole condominiali, il capitale culturale degli abitanti e, in generale, potremmo dire il “capitale sociale” della comunità insediata.
E a questo punto dovrebbe apparire chiaro che una dimensione centrale nel comprendere ciò che le imprese sociali possono utilmente apportare alla soluzione della questione abitativa è quello della definizione di criteri che definiscano la natura e la forma della comunità locale, cioè della comunità dei residenti. Basti pensare alla precisa definizione di quali abitanti abbiano diritto o possibilità di accedere all’insediamento, oppure alla definizione di regole e modalità di gestione del vivere quotidiano o, ancora, al grado di partecipazione degli abitanti alle scelte di gestione e alla definizione delle regole di convivenza,…
L’azione delle imprese sociali nella promozione e produzione di interventi di edilizia residenziale sociale si configura come attività di sviluppo locale nella misura in cui è in grado di attivare una molteplicità di risorse siano esse finanziarie, sociali, culturali, umane, ambientali e così via, di porsi come collettore di domande sociali abitative inedite, coordinatore di processi di sviluppo complessi, particolarmente adatto in quelle situazioni in cui gli attori locali intendono perseguire obiettivi di sviluppo alternativi a quelli della crescita.

E, allora, cosa significa che oggi non è più sufficiente costruire “case” quanto produrre “abitabilità”? significa che un’impresa sociale che ha una mission nell’edilizia sociale (più estensiva del realizzare cohousing) deve produrre case prestando attenzione a tutte queste caratteristiche:
– i caratteri fisici del luogo;
– i caratteri della comunità locale (livello reddituale, culturale, grado di accettazione delle norme ecc.);
– la configurazione delle regole in uso (sia costitutive dell’iniziativa, sia di comportamento degli abitanti e di gestione);
– la struttura insediativa del contesto locale in cui l’intervento è inserito, in quanto la pratica abitativa non si limita all’uso della casa, ma coinvolge, a diverse scale, l’intorno;
– la dimensione progettuale (le idee), con particolare riferimento alla progettazione architettonica e urbanistica e a quella dei servizi;
– i modelli di gestione finanziari (gli strumenti) con particolare riferimento alle tecniche utili a perseguire e mantenere nel tempo l’affordability.