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La casa dei bambini…è un cohousing

Nell’immaginario collettivo il termine “casa” ha sempre significato “famiglia”. Pensiamo a un noto slogan di un brand italiano che ha fatto storia oppure al marchio di un’altra impresa del made in Italy conosciuto e riconosciuto in tutto il mondo. La casa appartiene ai bambini; un luogo in cui si sentono “coccolati”, che li riporta al […]

Nell’immaginario collettivo il termine “casa” ha sempre significato “famiglia”. Pensiamo a un noto slogan di un brand italiano che ha fatto storia oppure al marchio di un’altra impresa del made in Italy conosciuto e riconosciuto in tutto il mondo. La casa appartiene ai bambini; un luogo in cui si sentono “coccolati”, che li riporta al caldo abbraccio di mamma e papà o ai vizi degli amati nonni. Se, quindi, un’abitazione è direttamente collegata ai più piccoli, che impatto potrebbe avere sugli stessi un edificio concepito in ottica cohousing?

Quando tra le quattro mura vive un bambino la sua presenza riempie ogni spazio; diventa tangibile anche in sua assenza e l’effetto nostalgia è sempre dietro l’angolo. Quando nel nostro articolo abbiamo parlato di cohousing come di abbattimento delle barriere della solitudine intendevamo anche questo. Quanti “nonni” avrebbe a disposizione un bimbo in una comunità partecipata? E, allo stesso modo, quanti “nipoti” avrebbe un nonno dando così un senso diverso alle proprie giornate?
Ecco perché, in una progettazione degli spazi condivisi, tenere a mente la visione “bambino” è fondamentale.

 

I vantaggi del cohousing per i minori

La società italiana, al contrario dell’immaginario “casa”, non si può dire che sia totalmente a misura di famiglia; pensiamo ai salti mortali che, quotidianamente, una mamma o un papà che lavorano devono fare per accudire i piccoli e, al tempo stesso, guadagnarsi da vivere. Contrariamente al nord Europa, nel nostro Bel Paese gli asili aziendali sono ancora una pseudo utopia (pochissimi i casi in attività) e l’orario lavorativo full time mal si concilia con quello della scuola pubblica costringendo numerose famiglie o ad attivare servizi di pre e post didattica a pagamento o a rivolgersi ad istituti privati.
Qualora così non fosse, l’unica soluzione rimane quella di assumere una baby sitter, jolly sia nella cura della prole che nello svolgimento delle faccende domestiche. Molte donne, e numerosi papà, si trovano, così, di fronte all’annosa questione: lavorare per pagare la baby sitter o rinunciare al lavoro per accudire i propri piccoli? Con lo status pensionistico dalle visioni sempre meno rosee per i giovani e un’anzianità della popolazione in costante aumento, è da tenere in conto l’idea che, se fino ad oggi, i nonni si sono rivelati una risorsa fondamentale nell’accudimento della prole per i genitori lavoratori, un domani i futuri nonni saranno ancora alle prese con la propria occupazione non potendo così fare da spalla ai figli nella gestione del nipotame.
Una comunità partecipata si rivelerebbe, quindi, una soluzione vincente sia nel breve che nel lungo termine. Le baby sitter, infatti, potrebbero essere condivise in un’ottica di abbattimento dei costi e i vicini i “nonni” in più per sopperire alle assenze giustificate genitoriali.
Il cohousing vince, inoltre, anche in ottica sicurezza: gli spazi condivisi e la forma di quartiere privato con soluzioni all’aperto e parchi “privati” renderebbe migliore la gestione dei piccoli su scivoli, altalene e dondoli.
Dulcis in fundo, il car sharing: quante volte l’accompagnamento dei piccoli a scuola o in direzione delle attività sportive si è rivelato un problema per molte famiglie? Grazie all’abitare condiviso, aver a disposizione un aiuto anche da questo punto di vista è senz’altro un “pro” importante nella gestione della propria quotidianità e nel miglioramento della qualità della vita. (MT)