Potevamo chiamarla “MeWe cohousers” ma abbiamo preferito sostituire cohousers con “abitare collaborativo” perché se è vero che la società cerca di guardare al meglio che c’è all’estero, è altrettanto vero che per promuovere i cohousing noi ci rivolgiamo, preferenzialmente, a chi risiede nel territorio italiano.
MeWe, invece, è rimasto Me-We. Perché “Me” e “We” tutti sanno che vogliono dire “me stesso” e “noi”, ma anche perché quando inizi una cosa nuova, a qualche santo ti devi votare. Noi ne abbiamo scelto uno bello grosso: Muhammad Alì, altrimenti detto non proprio casualmente “The Greatest”, il più grande di tutti.
Me-We è, presumibilmente, il componimento più breve in lingua inglese, pronunciata da Muhammad Alì quando gli è stata chiesta una poesia durante il suo discorso di apertura ad Harvard University, il 4 giugno 1975. Si, una poesia gli avevano chiesto, perché oltre che con i pugni anche con le parole era fortissimo e, oggi, lo possiamo considerare davvero il primo rapper afroamericano.
Ha detto: “Me, We”. Con il pugno alzato!
Non solo io,
non solo noi,
non solo sé.
Muhammad Ali, Il più grande di tutti. Una sua poesia di due parole e quello sforzo individuale messo a disposizione di un’identità collettiva. E le case in cohousing o in qualunque altra forma di abitare condiviso che pensiamo noi di Me-We sono proprio così, con quel “Me”, cioè con la dimensione individuale fatta di un qualche isolamento non sempre totalmente voluto che diventa un problema. E con quel “We”, cioè con la dimensione della piccola comunità intenzionale dei cohousers, che accomuna e coinvolge e prova a esser la soluzione: il cohousing (o l’abitare collaborativo).
L’io che si fa noi. Perché il doppio di “sei”…è “siamo”.