Ci stiamo avvicinando al secondo Natale di convivenza con il Covid19 e, dal nostro canto, ci sembra doveroso trarre un bilancio. Un bilancio in termini di abitazione, casa, vita tra le quattro mura nell’epoca pandemica nato dal desiderio di comprendere se, in questi venti mesi, la situazione “abitativa” in Italia si sia modificata rispetto al passato.
Quanto l’emergenza sanitaria, infatti, ha cambiato il nostro modo di vedere la “casa”? Molto, come abbiamo più volte sottolineato in questo spazio.
Eppure, in ottica cohousing, è ancora lungo il percorso da compiere sebbene la strada sia stata tracciata. Abbiamo parlato in diversi casi sui nostri canali di quanto l’archetipo “casa” sia difficile da ricostruire nel Bel Paese e di quanto la percezione del modello “famiglia felice che fa colazione attorno a un tavolo” sia ben impresso nel nostro immaginario collettivo.
Il Sars-Cov2, però, ha evidenziato quanto le relazioni siano alla base della nostra società e quanto un ambiente protetto sia fondamentale non solo dal punto di vista della salute fisica ma anche di quella economica. Un’abitazione in cui gli ambienti si condividono rispettando spazi e ambienti fa bene agli anziani, ma anche ai bambini che, come scritto nel pezzo di quindici giorni fa, trovano nuovi amici con cui giocare e non solo.
La ricerca del proprio luogo abitativo del cuore, nei mesi pandemici, ha visto un aumento delle residenze con spazi aperti (peculiarità che trova nell’abitare condiviso e nel cohousing la sua massima realizzazione) e con metrature più ampie in grado di ospitare home worker e studenti in DAD. Anche in questo frangente il cohousing o qualunque altra forma di abitare condiviso, con i suoi saloni condivisi, si rivela strategicamente vincente. Pensiamo ad esempio al classico appartamento di 80 mq che, grazie alle aree in coabitazione può raggiungere i 300 se non i 400 mq. Il tutto a cifre accessibili e con il vantaggio di condividere ambienti, onori e oneri (pensiamo alla pulizia delle superfici) con la propria comunità selezionata. I mesi trascorsi senza potere uscire hanno sottolineato quanto la casa non sia più semplicemente il luogo in cui riposare le stanche membra dopo una giornata di lavoro, ma il “nido” in cui cullare l’anima e in cui trascorrere, perché no, la maggior parte del proprio tempo diurno.
La soluzione, per un maggior benessere, diventa dunque la residenza di quartiere pensata nell’ottica di buon vicinato e di collaborazione costruttiva. Augurandoci di non dover più parlare di pandemia nell’arco del 2022 crediamo che il cohousing e le altre forme di abitare condiviso abbiano davvero tutte le carte in tavola per ribaltare il famigerato archetipo di cui facevamo menzione ad inizio articolo. (MT)