Nella settimana del Festival del New European Bauhaus (NEB), giovedì 9 giugno all’Università degli Studi di Genova si è tenuto un evento organizzato da Regione Liguria attraverso l’Ufficio di Rappresentanza a Bruxelles. Più di cento giovani insieme a docenti ed esperti del settore pubblico e privato, tra cui anche MeWe abitare collaborativo, hanno provato a dar forma a idee e progetti per ispirare i passi successivi della Regione ai valori del NEB, cioè bellezza, sostenibilità e inclusione.
Obiettivo dell’iniziativa era dare avvio a un ecosistema permanente di attori per lo sviluppo del New European Bauhaus in Liguria che, in modo dinamico e flessibile, sia in grado di accrescere la cultura e la conoscenza sui temi del NEB, stimolando il territorio e ispirandolo attraverso la diffusione delle buone pratiche in essere a livello nazionale ed Europeo.
Non è la prima volta che MeWe abitare collaborativo si occupa del New European Bauhaus: ne abbiamo già discusso su questo blog dal punto di vista di un promotore di cohousing come siamo noi. E, quindi, anche la settimana appena trascorsa eravamo presenti e abbiamo inoltre preso parte ai tavoli di lavoro circa il tema della città costiera dell’arco ligure, focalizzando l’attenzione sull’importanza della ricostruzione del capitale sociale delle comunità locali.
Di particolare interesse l’esercizio che la Regione Liguria ha proposto: interpretare il New European Bauhaus partendo dalle specificità di un territorio come quello ligure e dalle sue formazioni sociali. E, sul punto, chi come noi si occupa di offrire nuove forme di abitare come il cohousing non può che accogliere almeno due delle grandi questioni che attengono la società ligure e che ci sono stati proposte:
a) come trasformare le fragilità indotte dall’invecchiamento della società ligure in valore?
b) come attivare un maggiore engagement civico nei riguardi dei più giovani?
Di fronte a queste grandi questioni quadro, vediamo come il punto di vista di chi offre casa, e casa in cohousing, reagisce.
Il superamento della famiglia nucleare come unico modello di riferimento per i giovani
Quando pensiamo alle fasce di popolazione più giovani, pensiamo anche a come i radicali cambiamenti della popolazione dal punto di vista sociodemografico abbiano agiti come straordinario fattore di cambiamento della domanda (sociale) di casa, avendo messo in crisi il modello di famiglia nucleare tradizionale e, allo stesso tempo, avendo prodotto nuove forme di famiglia e nuovi sistemi per organizzarne la vita.
Il passaggio da un unico modello di famiglia a una pluralità di forme familiari, sotteso alla visione di chi è più giovane, mette in discussione il modello familiare nucleare, e rivaluta un’interpretazione estesa di famiglia, nella quale l’ambito relazionale assume una nuova centralità, sia a causa della moltiplicazione dei rapporti sociali che caratterizza le famiglie ricomposte, sia come antidoto contro l’isolamento, in particolare degli anziani, amplificato dalla privatizzazione dell’abitare.
Superare il modello nucleare come chiave di lettura per la vita familiare, implica una revisione strutturale e funzionale anche del modello abitativo basato sull’alloggio indipendente per la famiglia singola.
La domanda abitativa degli anziani
I bisogni abitativi inediti connessi con l’invecchiamento della popolazione e con la conseguente diffusione di condizioni di solitudine e perdita progressiva di autosufficienza è vero che non sono nuovi, ma la loro dimensione potenziale è davvero inedita.
Noi riteniamo che tale domanda sia portata dall’alta percentuale di anziani proprietari della casa in cui vivono che si connota dalla presenza di un sistema di supporto informale da parte dei famigliari (e delle badanti): tale popolazione che invecchia esprime un bisogno di ageing in place, ossia della permanenza nel proprio domicilio quale risposta per così dire più naturale all’invecchiamento e all’aumento della vulnerabilità.
Solo che la soluzione di rimanere nel proprio domicilio, in ragione della vetustà dell’abitazione, della bassa capacità di spesa dei pensionati a fronteggiare le questioni assistenziali e del contesto problematico di residenza, rischia di trasformarsi a volte in una «trappola», accrescendo la vulnerabilità di questa fascia di popolazione. Per tali motivi, non ci sono garanzie che l’ageing in place si riveli una strategia qualitativamente adeguata. E, per gli stessi motivi, merita considerare con grande attenzione le forme di abitazione collaborativa o le esperienze di cohousing intergenerazionali.
L’emergere di inediti bisogni relazionali, sia dei giovani e sia degli anziani
La terza faccia della nuova questione abitativa è data dall’emergere di inediti bisogni relazionali connessi con l’abitare. Bisogni che necessariamente ampliano lo spettro degli interventi, dalla casa all’abitare e che intercettano anche le criticità sollevate dalla questione urbana, in primis la «capsularizzazione» spaziale e relazionale.
Registriamo una crisi funzionale dovuta al cambiamento del modo in cui la famiglia vive: la homeownership vista come traguardo sociale e anche l’uso massiccio dell’automobile, hanno inciso significativamente sulla condizione di isolamento che caratterizza le famiglie moderne. In questo contesto, il fatto che le donne lavorino sempre più fuori casa aumenta i problemi di cura di bambini e anziani, in un quadro in cui il sistema di welfare per la famiglia è particolarmente debole.
E, al contempo, registriamo una forte pressione sulla tenuta del welfare familiare indotta anche l’allungamento delle reti familiari, dovuto sia a una maggiore mobilità territoriale delle giovani generazioni che si spostano alla ricerca di lavoro, sia al fatto che le famiglie immigrate non possono contare su una rete di supporto familiare, visto che spesso i parenti rimangono nel loro paese di origine.
Per tutte queste ragioni aumentano i bisogni di assistenza e le richieste di sostegno da parte delle famiglie, che, sempre più isolate e frammentate, esprimono nuove necessità anche in termini di casa. Da ciò si sviluppa la richiesta di case più flessibili, in grado di adattarsi alle trasformazioni attraversate da chi vi abita; si guarda con rinnovato interesse a modelli abitativi che sfumano i confini tra privato e comune, alla casa come luogo di relazioni, in cui incontrarsi, trovare supporto e sviluppare nuove opportunità, anche economiche.
L’abitare condiviso all’incrocio tra domanda degli anziani e domande dei giovani
È indubbio che i cambiamenti di cui sopra siano fattori che alimentano una riflessione generale sull’attualità dell’abitare condiviso e sul cohousing, con cui rispondere a situazioni di vulnerabilità economica e sociale.
La condivisione affronta il problema della scarsità (di risorse, di relazioni, di spazi) sostituendo l’accesso al possesso e gettando le basi per una società costruita su meccanismi circolari nei quali la socialità diventa il mezzo per creare valore. Questo approccio porta a considerare il cohousing e l’abitare collaborativo come un processo produttivo di beni collettivi relazionali, dove a partire da alcune risorse fisiche date, i soggetti che vi interagiscono producono nuove risorse, materiali nel caso dei servizi collettivi e immateriali, nel caso del benessere sociale alimentato da relazioni cooperative e di reciprocità.
Il punto non è contrapporre la casa condivisa alla casa individuale e neanche un modello di famiglia a un altro, quanto accorgersi di quello che sta cambiando intorno a noi e provare a coglierlo, per offrire, a chi vorrà e a chi ne avrà la necessità, una a soluzione abitativa appropriata alla nuova domanda sociale di casa.